[Visione] Il grande e potente Oz

Sabato sono andata, insieme a un improbabile ma simpaticissimo gruppo di amici (<3), a vedere Il grande e potente Oz, ovvero l’ultimo arrivato di casa Disney, e a visione ultimata mi sono detta “perché non parlarne in un bell’articoletto sul blog?”. Perciò ecco qui, cari lettori, la prima recensione cinematografica di Pensieri d’inchiostro… che, mi correggo, non sarà una vera e propria recensione – dato che dubito di possedere i requisiti adatti per parlare di cinema – ma un semplice commento che contenga le mie riflessioni in proposito.
Dite che è una buona idea? No, vi prego, non cominciate a lanciarmi i pomodori già adesso! Prima, almeno, ditemi cosa pensate di questo esperimento e se è il caso di continuare 🙂

Naturalmente, visto che mi piace fare le cose per bene, qui sotto trovate la locandina e i vari dati del film.

Titolo: Il grande e potente Oz
Titolo originale: Oz the Great and Powerful
Regia: Sam Raimi
Genere: fantastico, avventura
Paese: USA
Durata: 127′
Casa di produzione: Walt Disney Pictures
Soggetto: L. Frank Baum
Musiche: Danny Elfman
Cast: James Franco, Mila Kunis, Michelle Williams, Rachel Weisz, Bill Cobbs
Data di uscita: marzo 2013

La trama su Wikipedia e il booktrailer.

Comincio questo commento con un semplice fatto: secondo me la Disney, con questa nuova avventura a Oz, ha fatto fiasco. Certo, nessuno può negare che dar vita a un prequel del famoso Mago di Oz, in cui venga rivelata una parte della storia che nessuno aveva mai visto o letto, sia stata una buona idea: io stessa, che ho divorato il libro quando ero molto piccola e che continuo a leggerlo con passione, sono sempre stata incuriosita dalla figura del Mago, che pur essendo presente nel titolo è uno dei personaggi più avvolti nel mistero di tutta la vicenda. Però, a mio parere, si tratta di una buona idea sviluppata davvero male.

Chiariamoci: l’ambientazione è spettacolare (alcuni esempi: 1, 2 e 3), coloratissima e piena di dettagli che rendono il mondo di Oz assolutamente memorabile, anche senza bisogno del 3D; ma questo è l’unico vero pregio di tutto il film.
Che dire della trama? Bah, vi dirò che ho sbadigliato per gran parte della proiezione. Personalmente l’ho trovata assai banaluccia, spesso scontata e, lo ripeto, perlopiù noiosa, nonché riassumibile in:

Il “mago” Oz incontra una dopo l’altra almeno cinque pulzelle che gli fanno gli occhi dolci, perdutamente innamorate del suo sorriso da schiaffismagliante e carismatico; lui regala a tutte loro un carillon che dice essere appartenuto a sua nonna, dopodiché insieme fanno tutte le loro belle cose, fino a che non entra in scena la ragazza successiva e lui scarica la vecchia senza tanti complimenti (e si meraviglia pure se talvolta quest’ultima si inca22a appena appena…), dopodiché la storia si ripete uguale e identica.

Theodora, Glinda ed Evanora: tre delle suddette donzelle.

Insomma, in due ore di film Oz riesce a farsi in quattro e quattr’otto tutti gli esemplari di sesso femminile che incontra – che si tratti di normali ragazze o di streghe buone e cattive non ha importanza. Non che mi dispiaccia, ma per aver pagato 6€ di biglietto mi sarei aspettata qualcosina di più da parte di un personaggio dalle mille potenzialità come Oz.
Quando poi entra in scena l’ultima fiamma del mago, ovvero Glinda – aka la Buona Strega del Sud -, da fastidioso come era Oz si è fatto del tutto insopportabile, più o meno tanto quanto ho trovato lei. Il fatto è che tutto, nel film, non fa altro che ricordarci continuamente quanto la bella Glinda sia buona, gentile, premurosa, affettuosa, buona come il pane, altruista, amorevole, giusta… ah, l’ho già detto buona?

L’insopportabile Glinda la Buona che arriva nella sua bolla di sapone.

Credo sia inutile dire che l’ho detestata dal primo momento che l’ho vista, anche perché lei non ha bisogno di dimostrare la sua bontà: lei è buona e basta. Voglio dire, persino le streghe cattive qui danno prova di avere dei motivi validi per essere cattive: lei no, lei è buona perché sì.

Gli unici personaggi ben riusciti, a mio parere, sono la strega Evanora e soprattutto sua sorella Theodora, interpretate da Rachel Weisz e Mila Kunis: sono da considerarsi le figure più ambigue di tutto il film, giacché solo in un secondo momento si scopre la loro vera indole. Theodora, inoltre, all’inizio è chiaramente disposta ad aiutare i buoni, ma poi accade qualcosa che le fa cambiare barricata… e naturalmente in tutto questo c’entra lo zampino di Oz. Ciò che mi è piaciuto di loro, comunque, è anche ciò che manca a Glinda: una personalità che le spinga ad agire per giungere a ciò in cui credono, e non per forza per conseguire il bene universale (a questo proposito, Glinda sembra non possederne manco uno straccio, dato che passa le sue giornate seminando pace&amore).

E poi ci sono i dialoghi, ragazzi: giuro che non mi veniva un tale prurito dai tempi di Tualet, da tanto suonavano così struggenti e lacrimevoli. Anche non poco patetici, però.

Theodora, la Malvagia (ma simpatica) Stega dell’Ovest.

Per fortuna l’azione diventa più interessante verso il finale, in cui Oz mette in scena il suo spettacolo, e a mio giusizio la suddetta sequenza è stata la sola che abbia salvato almeno in parte il resto del film: l’intera storia, del resto, preparava allo scontro finale tra i “buoni” – Oz, l’incantevole Glinda (bleargh! Vade retro!), e i bizzarri abitanti del Sud – e i “cattivi” – le streghe dell’Est e dell’Ovest, le scimmie volanti e il resto dell’esercito -, e mi è piaciuto abbastanza come il regista ha deciso di gestirlo. In pratica ruota tutto attorno a una domanda: possono l’astuzia, la tecnica e l’illusione averla vinta sulla magia vera e propria?
La scena in generale, dunque, risulta carina e tutto sommato piacevole. Certo, poi alla fine, dato che il Bene™ ha immancabilmente trionfato (c’era pure bisogno di dirlo?), mi è toccato sorbirmi una sequenza poco meno che da nausea, che manco a farlo apposta vede come protagonisti Oz e la sua Glinda…

A parte poche idee carine, come la bambina di porcellana, però, non ho trovato nulla che mi facesse venire voglia di rivedere Il grande e potente Oz. In tutta onestà, se avessi saputo prima cosa mi aspettava, l’avrei proprio evitato.
Dunque ve lo sconsiglio? Sinceramente non so: ritornare a Oz è stato senz’altro bello dopo tanto tempo… però forse è stato proprio per questo che sono rimasta alquanto delusa: le aspettative per questo film erano molto, molto alte. Peccato che non siano state appagate quasi per niente.

Per concludere, comunque, ecco a voi un’immagine bonus: questa che vedete è l’espressione tipica di James Franco durante gran parte del film, ovvero nei (tutt’altro che rari) momenti in cui se la spassa con la fanciulla di turno. Guardate un po’ come se la ride, Oz! 🙂

Recensione: Le rune del tempo (2^ parte)

Ecco a voi la seconda parte della recensione de Le rune del tempo. Per chi si fosse perso la prima parte, la trovate qui.

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Aggettivi e avverbi a gogò

Un altro problema de Le rune del tempo è l’uso sconsiderato di aggettivi e avverbi, nel 95% dei casi inutili e che appesantiscono soltanto. Vediamo alcune citazioni:

Sbalordita, incredula e inorridita (pag. 38)

uno sguardo contrito e timoroso (pag. 65)

uguali, vibranti e intense emozioni (pag. 77)

uguali, immobili e identici (pag. 112)

bloccata, immobile, non riuscivo a proferire parola (pag. 124)

Come potete vedere, sembra che l’autrice non sia soddisfatta se non ci ripete gli stessi concetti almeno tre volte di seguito, spesso utilizzando aggettivi che hanno un significato pressoché identico, come i primi tre “sbalordita, incredula e inorridita”. Di avverbi, soprattutto in “-mente”, ne ho trovati talmente (appunto! ^^) tanti che non me li sono nemmeno segnati: tanto, basta aprire una pagina a caso per trovarne almeno uno inutile.

Donna sbalordita. Donna incredula. Donna inorridita.

Ma non solo soltanto questi aggettivi e avverbi che appesantiscono il tutto: nel romanzo si è costretti a leggere periodi interminabili, con subordinate che si aggiungono ad altre subordinate. Un paio di esempi, come al solito:

Il mio tono si era fatto più duro e perentorio, da quando eravamo tornati a palazzo, piano piano stavo imparando a farmi valere di fronte ai miei uomini e ad essere sincera non mi dispiaceva affatto un po’ di quel potere, che la mia figura reale mi conferiva.

Avevo ormai compreso fin troppo bene che la riuscita di quella missione dipendeva soltanto da me e che, in assenza di mio padre, dovevo tenere ben salde le redini del Regno, con la stessa fermezza che mi era stata insegnata nell’arte del combattimento e che sembrava avrei dovuto mettere a frutto a breve.

Con qualche eccezione, le frasi sono tutte più o meno così: interminabili, pesanti, e piene di virgole lì dove starebbero meglio dei punti fermi.

Errori veri e propri e obbrobri stilistici

Ditemi se non mi devo arrabbiare, quando mi tocca a leggere una roba del genere:

Per lui contava solo per la sua primogenita andava in sposa ad un uomo delle Terre della Luce e che lasciava la sua casa

… o altre virgole tra soggetto e verbo:

Il sacco era stato lasciato aperto, come se chi lo aveva deposto in quel luogo, avesse voluto che il piccolo fosse riscaldato dal tepore del sole. (pag. 72)

Quando gli occhi furono in grado di adattarsi, intravvedemmo stagliarsi di fronte a noi, una breccia di luce accecante. (pag. 77)

…Il sangue del malvagio, salverà l’amore. (pag. 234)

… oppure trovare per ben due volte un bel “tenere allo scuro” (che mi ricorda tanto il buco dello zono), o ancora dover leggere un “gridare a gran voce” (non sapevo che si potesse gridare a bassa voce!) o vedere una virgola praticamente dopo ogni “che”. Be’, sappiate che Le rune del tempo è pieno di queste bellezze senza pari.

Persino il buco dell'ozono si è allargato a leggere obbrobri del genere.

Incongruenze, situazioni stereotipate e buchi di logica

Partiamo dalle incongruenze. Non ho né il tempo né la voglia di riportare tutte quelle che ho trovato (anche perché sono davvero tante), perciò scriverò qui solo quelle che mi sono sembrate più evidenti. Per esempio:

• Prima di tutto, come si capisce anche da alcune delle citazioni che ho riportato qui, Celsien è ed è sempre stata un maschiaccio: ha sempre preferito le spade e l’arco alle bambole e ha imparato a combattere da piccola. Nonostante ciò, ha seri dubbi di riuscire a reggere il regno mentre suo padre è via, e comunque nel corso della storia sono rare le volte in cui dà veramente prova delle sue capacità. Di solito, ha sempre bisogno di essere salvata, il che non la rende proprio il personaggio meglio caratterizzato nella storia della letteratura.

• Quando anche Celsien se ne va per cercare di salvare suo padre e rimettere a posto le cose, lascia il comando del regno a suo cugino. Ebbene, questa è l’ultima volta che sentirete parlare di lui, dal momento che il cugino sparisce senza lasciar traccia. Puff!

• A un certo punto Celsien e i suoi compagni di viaggio trovano un bimbo abbandonato che chiamano Firin. A pagina 91 il suddetto si trasforma in un elfo (!) e dice che il suo vero nome non è Firin ma Olfaran e che è stato inviato dagli Elfi della Notte per cercare una “persona misericordiosa che spezzasse le catene di oppressione del suo popolo”. Ma a pagina 167, Celsien – dopo che Olfaran si è ri-trasformato in bambino – dice chiaramente che: “Le anime sono spiriti liberi, ogni volta che si trasfigurano, il soggetto di cui sono il centro vive le esperienze connesse ai suoi spostamenti, ma non ha memoria alcuna delle situazioni precedenti e di coloro che ha già incontrato.” Quindi com’è possibile che Olfaran ricordi che l’avevano chiamato Firin e la faccenda del suo popolo?

• A pag. 65 conosciamo i due gemelli Joan e David, e anche qui ne succedono delle belle. Prima di tutto, i nostri amici ci stupiscono con il seguente dialogo:

– Ecco vedi sei il solito rozzo caprone! Presentaci entrambi invece di continuare a inveire contro di me.

Cioè, spiegatemi, prima dice “rozzo caprone” e poi un bell'”inveire”? Molto congruente, devo dire.

Un rozzo caprone.

Poco dopo, i nostri amici ne combinano un’altra:

– Noi siamo i gemelli, David e Joan, della contea di Brunsdale. Siamo qui per darti una mano nella tua ricerca – disse David.

Posto che il PoV è sempre interno a Celsien, come fa quest’ultima a sapere chi dei due ha parlato, essendo identici l’uno all’altro (come viene detto poco prima)?

• A pagina 75 Drusen dice “Expandi Lucem!”. A parte il fatto che, se quell'”expandi” fosse inteso come imperativo, in latino sarebbe “expande”… da quando a Irlender si parla, appunto, latino?

Veniamo ora alle (tante) situazioni stereotipate, nonché spesso illogiche. Vi avviso, però, che potrebbero esserci SPOILER (se volete leggere il testo che segue, evidenziatelo con il mouse):

• Che Alis sia la sorella perduta di Celsien si capisce – oltre che dalla quarta di copertina – a pagina 53, ed esattamente 13 pagine dopo ne si ha una conferma schiacciante.

• Sebbene William e Andrew a malapena si guardassero, nel bel mezzo della battaglia finale il primo abbraccia il secondo e gli comunica, di punto in bianco, che è il suo fratello perduto. Okay…

• Memorabile la battaglia finale stile Power Rangers, in cui alle due sorelle spuntano nuovi potentissimi magic powers, in cui Celsien uccide suo padre per adempiere l’antica profezia (state tranquilli, tanto il padre risuscita) per poi svenire, in cui Alisea tira fuori tutta la sua “ruggente furia vendicativa” e ammazza il superkattivo di turno (mentre Celsien, nonostante sia svenuta, continua a fare la telecronaca dell’intera battaglia) soltanto per poi farsi venire i sensi di colpa.

• Se avete intenzione di comprendere come funzioni la faccenda della profezia, vi consiglio di non provarci nemmeno. Inutile che ci troviate un senso, tanto non ce l’ha. Anche partendo dal presupposto che ce l’abbia, la faccenda è talmente confusa e intricata da non capirci niente. A me, perlomeno, è successo così.

• Alla fine, naturalmente, tutti si scoprono parenti di tutti e chi non si scopre parente si sposa, e in ogni caso tutti vivono per sempre felici e contenti. Hip hip hurrà!

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Una (piccola) nota positiva

Okay, ci siamo capiti: Le rune del tempo è il solito romanzo fantasy scadente, con cliché in abbondanza (la principessa intrepida e tosta, la ricerca dell’oggetto magico, il viaggio periglioso, la compagnia eterogenea, il superkattivo, le creature stravaganti, il bel ragazzo dolce e coraggioso, i fratelli e i genitori perduti…) e bruttezze stilistiche a iosa. Ah, e non dimentichiamoci dei disegni, che oltre a sembrare appena abbozzati e, a mio parere, anche piuttosto brutti (se mi ci mettessi d’impegno, persino da me, che non so disegnare, uscirebbe qualcosa di meglio), non si capisce a chi si riferiscano. Un esempio è questo disegno che vedete a destra: –>

Nonostante la sua obbiettiva bruttezza, però, una noticina positiva la farei lo stesso, tanto per essere buona. Questa noticina si riferisce ai “molteplici livelli di lettura” che hanno messo in evidenza molti tra quelli che hanno recensito questo libro su aNobii prima di me.

Devo dire che, mentre leggevo Le rune del tempo, erano così tanti i difetti che incontravo che dopo un po’ mi sembrava di giocare a “caccia all’errore”, e quindi questa faccenda della storia oltre la storia è passata per me decisamente in secondo piano. Ciononostante, sono convinta che, scavando sotto chili e chili di schifezze varie, qualcosa di buono nelle Rune del tempo si trovi. E questo buono, secondo me, va oltre alla semplice storia che si racconta in questo romanzo, ed è anche quel buono che salva questo romanzo dall’essere classificato da me come “emerita schifezza”.
Il fatto è che, al di là delle avventure di Celsien, dei suoi viaggi e dei suoi amori, è evidente che dentro alle Rune del tempo è nascosto un autentico percorso di vita, forse proprio quello stesso percorso che Jamila Bertero ha fatto – come si trova scritto nelle notizie sull’autore della quarta di copertina – mentre scriveva il libro. E in questo penso che sia riuscita a fare centro, perché trasmette qualcosa che è comprensibile da tutti, come le emozioni e le delusioni dovute al primo allontanamento da casa e il desiderio di trovare da soli la propria via, il proprio destino.
Questo, a mio parere, è un messaggio molto bello. Peccato che – ripeto – sia stato sommerso da diversi chili di obbrobri di stile e incongruenze varie, perché se scritto bene e con una trama un po’ meno tirata su a caso, Le rune del tempo sarebbe potuto essere un romanzo perlomeno carino.

Purtroppo, su certi errori è stato impossibile da parte mia anche solo chiudere un occhio. Quindi il mio voto non va oltre una stellina e mezzo. Si poteva fare molto di meglio, secondo me. Speriamo che con i seguiti di questo libro (che, da quanto ho capito, dovrebbe trasformarsi in una duo/trilogia) vada un pelo meglio, ma per il momento questo è tutto. Quel che mi chiedo, però, è: come è possibile che una casa editrice accetti di pubblicare un libro con così tanti difetti, oltretutto senza un minimo di editing?

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N.B.: questa recensione è stata pubblicata il 14 settembre 2011, ma a causa delle rimostranze dell’autrice, che non concorda con il parere da me espresso, sono stata costretta a rimuovere il post per un breve periodo (fino a oggi, 16 settembre) e a modificarne alcune parti. Non voglio esprimere giudizi a riguardo, perciò siate liberi di farvi un’idea da soli, anche attraverso i commenti che trovate qui sotto.

Recensione: Le rune del tempo (1^ parte)

Ben ritrovati a un nuovo appuntamento con il progetto “Libri in cambio di recensioni“. Oggi esprimerò il mio parere sul romanzo d’esordio di Jamila Bertero, ovvero Le rune del tempo.

Titolo: Le rune del tempo
Sottotitolo: I cinque regni per la salvezza d’Irlender
Autore: Jamila Bertero
Genere: fantasy medievale sulla scia di Licia Troisi
Editore: Sangel
Pagine: 278
Anno di pubblicazione: 2009
ISBN: 9788890427183
Prezzo: € 15,00
Formato: brossura
Valutazione:

Ringrazio l’autrice per avermelo spedito.

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Da aNobii-dipendente, non mi è capitato di rado di trovare un libro di un esordiente che tutti o quasi giudicassero magnifico, ma che poi, andandolo a leggere, si rivelasse molto meno bello del previsto, o addirittura un’autentica delusione. Speravo che Le rune del tempo facesse eccezione, una volta tanto, e invece, purtroppo, non è stato così. E quando dico questo, ahimé, non mi limito a considerare il mio giudizio personale, perché credo di avere materiale a sufficienza per dire, quasi senza ombra di dubbio, che Le Rune del Tempo è un libro scadente, che in pratica è esattamente il contrario di come i più me l’hanno descritto.

Cominciamo questa recensione riportando la quarta di copertina, in modo che anche chi non ne ha mai sentito parlare possa farsene un’idea:

Anno di Luce 1200. Irlender non era mai stato così in pericolo come da quando Re Gourler era salito al potere.
Era giunto il momento che il casato della Rosa Blu partisse alla volta di Xarmar, nelle Terre del Nord, per fermare la sua avanzata. Ad Elorim, nelle Terre di Silivren, del Bianco Bagliore, la principessa Celsien si trovava a dover governare il regno senza alcun aiuto. Celsien si renderà ben presto conto che dovrà andare in aiuto all’esercito di suo padre, Re Thalon, per cercare di sconfigge il nemico. Nel suo viaggio verso Nord incontrerà amici inattesi, una sorella, perduta quando era troppo piccola per ricordare, e …forse anche l’amore. L’Arcimaga Silme le confesserà il potere racchiuso nelle Rune del Tempo, i magici bracciali detentori della straordinaria energia dello scorrere del tempo, nel suo imperturbabile cammino.
Il destino di Irlender sarà nelle mani di Celsien, la Profezia sta per avverarsi …Il sangue del malvagio, salverà l’amore.
Non si può più attendere …le Rune del Tempo stanno per trasfigurarsi.

Già la trama di per sè ci fa capire che Le rune del tempo non brilla per originalità: i cliché del sovrano oppressore, della principessa che deve provvedere da sola al regno, della sorella perduta, del viaggio periglioso, della profezia e degli oggetti magici si fanno sentire. Sempre le stesse carte che si mescolano, sempre la stessa partita che si gioca. E alla lunga questo stanca, soprattutto nel nostro panorama di letteratura fantasy, dove ogni settimana o quasi esce un nuovo libro che prende spunto (un modo gentile per dire che scopiazza) da altri fantasy già esistenti. Ma l’originalità di una quarta di copertina in sè non è poi così importante: ho letto molti libri che si basavano su idee nient’affatto originali, ma che si sono rivelati dei buoni libri sotto altri punti di vista, per esempio della qualità dello stile. Con Le Rune del Tempo, però, non succede nemmeno questo.

Ma prima di analizzare la storia in sè, diamo un’occhiata come al solito all’aspetto del libro, in particolare all’onnipresente cartina del territorio:


Perdonate la bassa qualità dell’immagine, ma sappiate che questo è il primo problema della suddetta mappa fantasy: è tremendamente piccola. Certi nomi non riesco a leggerli nemmeno io nell’originale, quindi figuratevi in questa foto che ho scattato di persona, non avendola trovata su internet.
In ogni caso, la piccolezza non è l’unico difetto di questa cartina: come avrete notato, infatti, sembra un sacco tirata via, approssimativa. A parte tre città, un fiume, un lago e gruppi sparsi di montagne, c’è il nulla assoluto. E voi capite che definire realistica una mappa del genere è molto difficile: nella realtà il “nulla” non c’è, e penso che non occorra un genio per disegnare una cartina più dettagliata e soprattutto realistica. E se è davvero così difficile, tanto vale non metterla proprio.

In ogni caso, veniamo al vero punto debole di Le rune del vento, che non è la cartina e nemmeno l’originalità della storia, bensì lo stile con cui la storia è stata scritta. Quindi sì, sorvoliamo sia sulla sviolinata prefazione che troviamo all’inizio del libro (“Un romanzo senza confini, che batte tutte le barriere precostruite del mondo reale. […] Un prezioso elemento che ammalierà gli amanti del fantasy e che non potrà mancare nella libreria di casa.”), sia sul prologo che molto prologo non è, perché suona come un tentativo (non troppo riuscito, puor moi) dell’autrice di mettere in poesia il messaggio della sua storia.
Sorvoliamo e passiamo al romanzo vero e proprio.

Un minestrone di infodump, PoV salterini e difetti vari

Si parte come al solito con un estratto direttamente dagli Annali di Irlender, Historia Regni (non ci è dato sapere da dove abbiano imparato il latino, però), che ci racconta qualcosa di questa terra di Irlender. Tutto bene? Per niente, perché – come al solito, aggiungerei – si tratta della classica introduzione raccontata e zeppa di inforigurgiti, ovvero della trovata che utilizzano spesso gli scrittori pigri per non dover sprecare energie per mostrare tutto. E in questo caso, lo Show, don’t tell avrebbe risparmiato ai lettori un capitolo inutilmente noioso. Un esempio? Ditemi se un incipit del genere non fa pensare a un (palloso) trattato di storia, piuttosto che a un romanzo:

Era l’anno di Luce 1200 nel Mondo d’Irlender. Da Quattrocento anni ormai ad Elorim, nelle Terre di Silivren, come in elfico venivano definite le Terre del Bianco Bagliore, si alternavano sovrani lungimiranti, che avevano saputo far prosperare i propri possedimenti, rendendo le terre rigogliose e le genti serene.

Finito il trattato storico, comincia la storia vera e propria, e qui le cose non vanno meglio:

Erano le prime luci di un freddo mattino d’Irlender, nelle Terre di Silivren, quando mi svegliai di soprassalto, madida di sudore, con la mente che ritornava alla realtà, dopo un lungo va gare in un inconscio oscuro e pieno di strani presagi. Mi ero appena accinta a prepararmi con l’abito delle feste, per il Sabato delle Querce, quando Dorotea, la mia balia, venne a chiamarmi.
– Celsien, sbrigati! La colazione è pronta e tuo padre vuole parlarti.
– Arrivo, balia, arrivo – risposi, indaffarata a chiudere l’ingombrante corsetto di fili intrecciati con le ghiere d’acciaio, a guisa di scudo. Ero solita indossare da sola gli abiti, senza l’ausilio di un’ancella, perché non sentivo il bisogno di dover essere servita, come tante donne, invece, trovavano indispensabile.

Solo io noto tutta una serie di problemi?
• Dopo ben due pagine di trattato storico, serve ancora spiegare che Irlender è nelle terre di Silivren?
• La prima frase è così piena di incisi e di altre frasi subordinate che risulta veramente pesante. E questo non è proprio un bene per un incipit.
• Posto che “mi ero appena accinta” è raccontato, non si alza nemmeno dal letto per vestirsi? Come fa, si sveglia all’improvviso e puff!, è già bella che vestita?
• Come mai la balia le dà del tu e la chiama per nome e non “mia signora”, “mia principessa” o un’altra variante, essendo chiaramente di rango inferiore a lei? E Celsien, che a quanto pare vive con la balia da una vita (se è la sua balia, l’ha anche allattata), come mai la chiama ancora “balia”?
• Anche l’ultima frase è palesemente raccontata, e inoltre risulta illogica per un verso, controproducente per un altro. Illogica perché mi sa molto strano che una principessa non sopporti di lasciarsi aiutare a vestirsi; controproducente perché fa sembrare Celsien davvero antipatica, che non è una bene per una protagonista: anche se forse non in modo intenzionale, si vanta di essere capace di vestirsi da sola, come se chi si facesse aiutare fosse in automatico una ragazza civettuola e snob. E questa non l’ha resa certo simpatica ai miei occhi.

Insomma, non male per un incipit, considerato che non è nemmeno una pagina intera. In quella successiva, infatti, troviamo:

Il manto bianco, ormai, stava stasciando il posto a soffici e verdi prati erbosi

Voi l’avreste detto che un prato è verde e addirittura erboso? Io non ci sarei mai arrivata, davvero!
E poco più avanti:

– Buongiorno padre mio, volevate vedermi?
– Sì, Celsien – ribadì lui

Riporto dal dizionario di italiano:
Ribadire: ripetere diverse volte idee, concetti e sim., per farli entrare bene in testa.
Il che implica che usare il verbo “ribadire” al posto di “rispose” non è proprio la scelta migliore che si possa fare…

Un verde prato erboso.

Si prosegue con un gran numero di frasi raccontate e dei soliti inforigurgiti, ma non solo: qui troviamo addirittura il cosiddetto “As you know, Bob”, ovvero un must che non può assolutamente mancare. E Le rune del tempo ne è pieno.
Ecco alcuni esempi presi sempre dal primo capitolo:

Lasciandomi un sorriso compiaciuto, proruppe:
– …e sei anche un ottimo guerriero. Nonostante io abbia cercato in tutti i modi di dissuaderti dal prendere in mano le armi, tu da bambina giocavi con le spade, anziché con le bambole. Il tuo posto preferito era la fresca solitudine del bosco, dove ti allenavi a tirare con l’arco e le frecce erano tue fedeli compagne. […] Quanto tempo è passato da quando, all’età di cinque anni, durante la Luna d’Inverno, prendesti in mano per la prima volta l’arco, che io stesso ti regalai?
– Ricordo, Padre – dissi confusa con gli occhi sognanti rivolti in l’alto […] – era enorme e lucente, con una rosa intarsiata. Le sue irte spine disposte tutt’intorno all’impugnatura d’oro, circondavano la mano di chi ne prendeva possesso. La corda che lo tendeva era di un materiale nobile, che sapeva solcare l’aria con il sibilo leggero di un alito di vento. Mi divertivo a passare le mie giornate a tirare con l’arco alle cascate di Tornavento, per poi rincasare passando attraverso i campi assolati di Anaslund, vicino al grande cerchio di Pietre di Mellun, nella foresta degli Elfi volanti.

Sorvolando sul disgustoso cliché della bambina che fin da piccola preferisce spade e archi alle bambole (un incrocio tra Nihal ed Eynis, in poche parole), trovo poco felici anche trovate del genere: dialoghi così sono tutt’altro che realistici, perché è illogico che un essere umano parli in questo modo. Chi parlerebbe a distanza di anni della propria bicicletta in termini come: “La candida catena perfettamente oliata e le nobili ruote gonfie al punto giusto mi conducevano per quieti sentieri e magici boschi fatati, popolati da simpatici cerbiatti e vivaci scoiattoli rossi”, a meno che non sia in vena poetica (cosa che Celsien al momento NON è)?
Si tratta come al solito della pensata tipica dello scrittore pigro, che utilizza i dialoghi per fornire al lettore informazioni che mostrare sarebbe troppo faticoso per un risultato piuttosto patetico, se devo dire la verità.
Questo scambio di dialoghi, inoltre, ha anche un altro problema (oltre a “in l’alto” e all’onnipresente virgola tra soggetto e verbo), che nella citazione ho segnato in blu: se il punto di vista è all’interno di Celsien (cosa ovvia, dato che parla in prima persona), come caspita fa a vedere dall’esterno i suoi occhi e a giudicare che sono sognanti? Che siano rivolti verso l’alto ci può stare, ma dovrebbe essere suo padre a dire che ha uno sguardo sognante. E sappiate che questo è soltanto il primo dei tanti errori di PoV che ho trovato, e non è nemmeno il più grave!

La candida catena perfettamente oliata e le nobili ruote gonfie al punto giusto mi conducevano per quieti sentieri e magici boschi fatati…

Fateci tranquillamente l’abitudine, perché nelle Rune del tempo questa è più la regola che l’eccezione: quando gli fa comodo, il narratore cambia PoV senza tanti complimenti, nel migliore dei casi piazzando un capitolo o due con su scritto “Dal diario di Andrew” o “Dagli annali di Irlender” (del tutto fuori luogo), o addirittura infilandosi nella testa degli altri personaggi come se niente fosse. Un errore piuttosto grave, per quanto mi riguarda.

Stesso discorso vale per il “Divenni scura in volto” di pag. 23 (Celsien non si può vedere diventare scura in volto), e per un’altra frase che troviamo più avanti, a pagina 224:

Mi misi a sedere con il volto ceruleo e spaventato, gli occhi sbarrati e i lunghi capelli che m’incorniciavano il viso e ricadevano sciolti lungo le spalle.

Prima di tutto, come sempre, Celsien non può in alcun modo vedere il proprio viso e i propri occhi. Inoltre, trovo che questo modo di auto-descriversi non sia proprio un granché.

Ma più avanti le cose peggiorano ancora. Per esempio, in parecchi punti Celsien inizia di punto in bianco a riportare tali e quali i pensieri degli altri personaggi, come ad esempio a pag 53:

[Celsien entra in una locanda e scambia alcune parole con la locandiera.]
Ha uno strano modo di comportarsi e un modo di parlare molto raffinato rispetto alla gente del paese e delle campagne circostanti, pensò d’un tratto la cameriera, che conosceva bene tutti a Sertin.
Mi parla in tono famigliare, quasi mi conoscesse, ma certamente è solo un’impressione e dire che ho fatto attenzione a non avere gioielli in evidenza, pensavo

Sorvolando sulla punteggiatura sbagliata e sui soliti infodump e frasi raccontate… mi spiegate come fa Celsien a riferire i pensieri della locandiera, tra l’altro ritornando immediatamente all’interno dei suoi?

Il meglio, però, deve ancora venire, perché dopo un po’ avviene il massimo: Celsien più di una volta sviene e continua a raccontare le scene come se fosse sveglissima. A pag. 87, per esempio:

[…] per poi ritrovarsi il mio corpo svenuto tra le braccia. [Andrew] Mi adagiò dolcemente sull’erba, nell’incavo delle radici di una quercia, che si trovava a pochi passi da noi. Scostandomi i capelli dal viso, si soffermò a fissarmi.
…È così bella… pensò Andrew …esile e indifesa, con i lunghi capelli ramati, che le ricadono lungo le spalle con ciocche ribelli. Dai lineamenti del suo volto traspare la nobiltà del suo animo.

Coerenza del PoV? Bye bye… Ah, e non dimentichiamoci i soliti “As you know, Bob” (d’ora in poi AYKB) e inforigurgiti a manetta e la solita punteggiatura bislacca.

O ancora, a pagina 251:

Gail e Parsel furono i primi a riprendere conoscenza.

Vi ricordo che ci troviamo ancora nella testa di Celsien. Detto questo, come fa la nostra protagonista, dato che è ancora svenuta, a dirci che tizio e caio sono stati i primi a riprendersi?

Non è finita qui, però: eccovi altri due begli esempi di raccontato:

Re Thalon era sempre stato agli occhi di tutti un uomo forte e deciso. Il suo fiero vigore trapelava da quel suo passo sicuro e dal portamento tipico del generale militare. Da giovane doveva essere un soldato dal fascino carismatico. Anche ora che gli anni avevano colorato di fili d’argento i suoi capelli, l’animo del combattente covava sotto le sembianze di un bonario e anziano re. (pag. 23)

Alisea era una donna alta e slanciata, da poco aveva compiuto i suoi ventidue inverni. La luminosità del suo viso lasciava scorgere l’indole pacifica, seppur resa forte e indomabile da una razionalità innata e un temperamento ostinato. Nonostante si mostrasse a tutti come una persona molto aperta e solare, in realtà era schiva e riservata. (continua per un’altra pagina buona con lo stesso tono da lista della spesa) [pag. 179]

… e un altro po’ di AYKB:

– C’è una minaccia che incombe sul nostro regno. È giunta ieri notizia, dal cavaliere della contea di Wizamy, che le Terre Lontane, donateci dai nostri antenati affinchè le preservassimo nel tempo, sono state conquistate dai guerrieri Altem, i mezz’uomini – disse [Re Thalon] in tono severo.

Ma Le rune del tempo non si limitano agli AYKB: si sono addirittura inventate un nuovo genere di inforigurgito, ovvero l’”As you think, Bob”, “Come tu pensi, Bob”. Anche di questa novità, Le rune del tempo è pieno zeppo: ogni due per tre ci ritroviamo con dei personaggi che pensano in un modo che non sta né in cielo né in terra. Ecco subito alcuni esempi:

Alis, così si chiamava la locandiera che mi stava offrendo ospitalità, si rese conto di aver sentito pronunciare parole che aveva udito solo un’altra volta prima di allora, quando era ancora una bambina. (pag. 54 – anche qui: 1) Come fa a sapere come si chiama, visto che lei non gliel’ha mai detto? 2) Come può Celsien riportare i pensieri della locandiera?)

[…] non posso privarmene, e ciò che di più caro mi resta di mia madre, fu lei a donarmelo (pag. 69)

È davvero intrigante e misterioso, pensò Alisea. Non mi era mai capitato prima d’ora di rimanere così estasiata ad ascoltare il suono della voce di qualcuno, come se fosse il canto di un usignolo, perdendomi tra le sue parole, come in un labirinto di voci, che sa cullare e dar conforto. (pag. 177)

è proprio vedendo la passione che muove questi ragazzi, che capisco che non posso arrendermi. Non posso smettere di combattere questa guerra, per la pace in cui, nonostante tutte le avversità continuo a credere. È per tutto quello che sta nascosto nei loro cuori puri e limpidi, che non posso esimermi dal dare loro un futuro, una speranza a cui aggrapparsi. Solo così possono intraprendere il loro viaggio e fare loro la mia battaglia, continuando a lottare quando saranno cresciuti e avranno compreso la loro strada. (pag. 200)

Cioè, spiegatemi, chi è che pensa in questo modo? È come l’esempio sulla bicicletta che ho fatto poco fa… Chi si metterebbe a pensare in modo così complicato? In circostante normali, nessuno, ed ecco perché mi sembrano pensieri così poco realistici.

~ ~ ~

Continua a leggere la seconda parte della recensione.

Recensione: Immagina

Eccomi di nuovo con la recensione di un altro libro inviatomi tramite il progetto “Libri in cambio di recensioni“: Immagina di Yami.

Titolo: Immagina
Autore: Yami
Genere: fantasy, bidimensionale, Giappone
Editore: Sangel
Collana: Cortona
Pagine: 396
Anno di pubblicazione: 2011
ISBN: 9788897040156
Prezzo: € 18,00
Formato: rilegato
Valutazione:

Ringrazio l’autrice per avermelo inviato in formato eBook.

Ho impiegato più del previsto a concludere questo romanzo, un po’ per la lunghezza (400 pagine non sono poche per un eBook, almeno secondo i miei standard), un po’ perché preferisco comunque dedicarmi a uno dei miei cari “vecchi” libri cartacei piuttosto che a un eBook. Se devo essere sincera, ero partita un po’ prevenuta, dubitando che mi sarebbe toccato di leggere un capolavoro… e invece mi sono dovuta ricredere. Cioè, Immagina non sarà un capolavoro, ma l’ho trovato comunque un buon romanzo.

Feo è un ragazzo come tanti altri: nonostante le sue qualità, non riesce a sentirsi inserito nel gruppo dei suoi coetanei, né a realizzare i propri sogni e ideali. La sua vita sembra avere una svolta quando conosce una ragazza speciale, ma la felicità dura poco, perché un giorno viene separato da lei, e Feo finisce per chiudersi in sé stesso… fino a quando una notte non si addormenta, quasi desideroso di non svegliarsi più. Quando si risveglia, però, si ritrova davanti un vecchio, che si presenta come il custode delle chiavi del passaggio tra il mondo della veglia a Immagina, la terra dei sogni. L’uomo gli offre la possibilità di cercare il senso della sua esistenza lì dove ha dimenticato qualcosa di molto importante, ma lo avverte: non sarà un viaggio facile. Le terre di Immagina non sono popolate soltanto da creature fantastiche e luoghi meravigliosi, ma anche dagli Incubi, entità spaventose che perseguitano gli abitanti e i sognatori, seminando ovunque dolore e distruzione. Ma deve decidere velocemente: il passaggio non può rimanere aperto per molto tempo. E Feo accetta.

Di questo parla il primo capitolo del libro. In che genere di mondo si troverà Feo?, viene da domandarsi. In una terra fiabesca come quella di Alice nel Paese delle Meraviglie o in un mondo incantato come Narnia? Oppure in uno in guerra come la Terra di Mezzo all’epoca delle avventure di Frodo?
No, niente di questo: Feo viene catapultato in una terra fantastica dalle atmosfere giapponesi: è una terra da sogno meravigliosa, popolata da strane creature. Ma i sogni non sono l’unica cosa che la caratterizza: ci sono anche gli incubi, gli spaventosi nemici dei sognatori, coloro che vivono a Immagina.
Un’idea che ho trovato ben fatta e originale, devo dire: in Immagina c’è ben poco dei classici fantasy a cui siamo abituati, e la contrapposizione tra sogni e incubi è una trovata che mi è piaciuta davvero molto. Sebbene ci siano alcuni punti in apparenza scontati (storie d’amore a triangolo, persone che scompaiono, altre che non si conoscono…), l’autrice ha avuto la bravura di inserire quasi sempre un colpo di scena imprevisto, un elemento inaspettato che rende più interessante la lettura. Uno scrittore che sa “prendere in giro” i propri lettori, facendo credere loro di introdurre degli elementi apparentemente banali per poi costringerli a rimangiarsi tutto, secondo me, è da ammirare: non sono molti quelli che sanno fare questo.

Parliamo un po’ dei personaggi, che, devo dirlo, mi sono piaciuti un sacco.
Chi non si è mai sentito un po’ Feo, quando non riusciva a essere accettato tra i coetanei, subiva una delusione d’amore e desiderava addormentarsi e non svegliarsi più? Detto così potrebbe sembrare il classico giovane con un carattere fragile e con problemi di autostima, ma presto ci si accorge che Feo ha qualcosa di più del “semplice ragazzo un po’ sfigato”: mi è piaciuto che, nonostante sia l’eroe della storia, spesso fosse difficile anche per lui non subire la violenza degli Incubi.
È un personaggio riuscito, secondo me: né troppo buono né troppo cattivo, né troppo “eroe” né troppo “mollaccione”. Un buon equilibrio, diciamo. Okay, durante la storia tende a svenire un po’ troppo spesso per i miei gusti, e a volte si deprime e comincia a piangersi addosso, ma tutto sommato mi è parso ben realizzato.
Un altro personaggio che ho apprezzato davvero tanto è stato l’esuberante Bello: in apparenza sembra sciocchino, superficiale e anche un po’ stupido, forse perché per lui ogni momento è buono per fare una battuta, ma poi si viene a sapere che ama moltissimo leggere e che ogni sera scrive i resoconti delle sue avventure, sperando, un giorno, di poterli trasformare in un libro tutto suo. Ho adorato la pagina dove viene scritto questo: rivela una parte nascosta di Bello, una parte che lo rende molto più profondo di quello che non sembri, gli fornisce uno spessore inedito che me lo ha reso persino più simpatico. Mi piace molto, in pratica, quando un personaggio apparentemente superficiale dimostra di possedere delle qualità che lo rendono migliore:

«Devi sapere che lui tiene un diario e ci scrive qualcosa tutte le sere» spiegò lei [Moo-chan].
«Non è un semplice diario. Come lo dici tu la fai sembrare una cosa da femminucce» protestò quello [Bello] imbronciato. Moo-chan replicò con una linguaccia. La divertivano le smorfie di Bello quando lo punzecchiava.
«Cosa scrivi?» chiese Feo.
«Beh…» fece Bello, imbarazzato dal suo interessamento «Scrivo i resoconti delle missioni che abbiamo svolto. Magari un giorno, mettendoli insieme, potrò scrivere un libro tutto mio» spiegò timidamente, abbassando lo sguardo come chi teme di essere deriso per i propri progetti.
«Sarebbe fantastico» disse Feo. Sorrise ed aveva un’espressione sincera ed incoraggiante.
«Lo pensi davvero?» esclamò Bello emozionato.
«Perché no? Se è quello che desideri, fallo».
Nessuno sembrò più felice di Bello in quel momento.

Gli altri personaggi, naturalmente, non sono da meno, ma è in particolare a questi due che sento di essermi affezionata.

Per quanto riguarda lo stile, però, non mi sono trovata altrettanto entusiasta: in generale l’ho trovato scritto bene, senza gli errori tipici che commettono gli esordienti, ma ci sono diverse sviste che, se fossero passate tra le mani di un editor, sarebbero state eliminate, rendendo così il libro ancora migliore. Purtroppo, questo non è successo, e spiegherò subito come mai dico questo tramite alcuni esempi presi direttamente dal testo.
Il mostrato, nel complesso, è buono, tranne forse nel capitolo iniziale, dove troviamo un resoconto della vita di Feo che mi è sembrato un po’ noioso e, tutto sommato, tirato via. Come in questo punto, per esempio:

Si voltò di scatto. Un vecchio, vestito in modo strano e con lunghi capelli bianchi se ne stava ritto davanti a lui […]

Dire semplicemente “vestito in modo strano” non fa vedere nulla, è raccontato. A volte sembra addirittura che l’autrice stia creando la trasposizione scritta di un fumetto giapponese, che – si sa – è una cosa da evitare. In altri punti, però, le cose vanno meglio:

Il sole picchiava forte, mentre il canto delle cicale faceva da accompagnamento ad un leggero venticello che cospargeva il prato di petali di ciliegio.

Un’immagine del genere rende bene l’atmosfera estiva, per esempio. Un’altra descrizione che ho apprezzato molto è questa:

In quel preciso istante, Feo aveva sentito qualcosa di caldo e pesante gravare sul suo petto come se una goccia di inchiostro, nero e denso come petrolio, gli fosse caduta sul cuore, lasciando una grossa chiazza scura: era di nuovo solo.

… e per fortuna le parti mostrate sono in maggioranza rispetto a quelle raccontate.
Tra gli altri difetti di stile, ho trovato molte “d” eufoniche inutili, un sacco di “??!”, che in italiano non esistono, “Hei!” al posto di “Ehi! e imperfezioni di vario genere, come:

– ripetizioni:

Feo annuì e, non appena Fauno li raggiunse, si avviarono tutti insieme su per una stradina un po’ isolata, allontanandosi così dall’epicentro della festa. Avrebbe preferito rimanere a guardare ancora un po’, ma non appena arrivarono alla locanda trovò uno spettacolo altrettanto interessante da ammirare.

– troppi avverbi in “-mente”, soprattutto di “improvvisamente”, come ad esempio in questa schifezza:

Purtroppo però l’effetto durò pochi secondi e non appena cessò, lo spettro accorciò immediatamente le distanze che lo separavano dalla sua preda.

– errori veri e propri, come “sono apposto”, ripetuti anche diverse volte:

«E’ tutto apposto?» chiese Bello impensierito mentre con l’aiuto di Moo-chan lo aiutava a rialzarsi.

[…]aggiunse Fauno rimettendo apposto la passerella.

«No grazie, sono apposto».

– espressioni infelici come:

A causa del forte vento, l’acqua era entrata dentro formando una pozza sotto la finestra.

Non sapevo che si potesse “entrare fuori”! ^^

A parte questi errori per lo più veniali, sono rimasta soddisfatta: tre stelline e mezzo assolutamente meritate. Davvero una bella storia, complimenti: fosse come Immagina la media dei libri fantasy che si trovano sugli scaffali!

PS: ah, dimenticato di menzionare i bellissimi disegni!

Il passaggio verso Immagina...

Recensione: Sensualità + Alcune considerazioni sulla poesia

Come promesso, ecco la prima recensione di un libro inviatomi tramite il progetto “Libri in cambio di recensioni“, ovvero Sensualità di Michela Zanarella.

Titolo: Sensualità
Sottotitolo: Poesie d’amore d’amare
Autrice: Michela Zanarella
Genere: raccolta di poesie
Editore: Sangel
Pagine: 46
Anno di pubblicazione: 2011
ISBN: 9788897040163
Prezzo: €10
Formato: brossura

Ringrazio l’autrice per avermelo inviato in formato eBook.

Sensualità è la prima raccolta di poesie che recensisco. Anzi, per dirla tutta, forse è addirittura la prima che leggo, e probabilmente sarà anche l’ultima, visto che il mio progetto “Libri in cambio di recensioni” si rivolge ai testi di narrativa. Per questo libro, però, ho deciso di fare uno strappo alla regola, forse perché ero curiosa di leggere la raccolta di poesie d’amore di un’autrice che non fosse una dei soliti nomi arcinoti.
Come avrete notato, tra i dati del libro accanto alla copertina manca la mia valutazione. Sappiate che non si tratta di una dimenticanza, bensì di una scelta precisa: volendo, avrei potuto inserire un voto come per tutte le altre recensioni, ma ho pensato che, essendo il primo testo di poesia su cui scrivo un parere personale (se si escludono i commenti sulle poesie che mi fanno leggere a scuola, ovviamente), non sarebbe “giusto” sparare un giudizio a zero su un genere che nemmeno io conosco bene. Sarebbe come esprimere un parere su un libro contemporaneo dopo aver letto esclusivamente classici.
Il fatto è che non ho per niente le idee chiare su questo libro, perciò vorrei evitare di inserire, per esempio, tre stelline senza tuttavia essere sicura di questo giudizio.

Prima di leggere questo libretto, non credevo che sarei riuscita a scrivere una recensione lunga e approfondita come al solito: avevo paura di ritrovarmi con uno di quei libri che “okay, è carino”, ma poi di non essere capace di dire nient’altro. Invece non è stato così, perché, dopo diciamo una decina di poesie lette su 27, ho capito che avrei potuto dire molto riguardo a Sensualità. Più quanto mi aspettassi, perlomeno.

Il mio timore di scrivere un parere ingiusto, forse affrettato, si fa sentire ancora adesso, in ogni caso. I motivi di questa paura, dopo averci riflettuto un po’ su, credo sia essenzialmente questo: fin’ora ho letto quasi solo le poesie dei “grandi”, come Leopardi, Pascoli, Petrarca o Dante – il mio tesssoro -, e la scuola mi ha abituato a trovare il messaggio nascosto più o meno profondamente nei loro componimenti. Ma c’è una grossa differenza tra le poesie dei grandi e quelle di uno “sconosciuto”: per le prime hai la certezza che un messaggio ci sia. Dopotutto, sono state lette e giudicate da un sacco di gente prima di te, perciò quando la maestra ti assegna il compito “Trova il messaggio di La mia sera” non è poi cosa tanto difficile: se ti viene chiesto di trovare il messaggio, questo probabilmente c’è, quindi basta spremersi un po’ le meningi, magari tirando fuori le solite frasi di circostanza prese da Yahoo! Answers (del tipo “Il poeta vuole trasmetterci quanto sia importante per lui affrontare il tema della sera paragonandolo con indubbia maestria al momento estremo della vita…”), e andrà sempre bene. Mal che vada, ti toccherà un brutto voto.
Ma quando si parla di una serie di poesie fresche di scrittura, su cui poco o niente è stato già detto, le cose cambiano radicalmente: non si può più fare affidamento a internet per andare alla ricerca del messaggio nascosto con l’unico fine di accontentare la professoressa, perlomeno. Bisogna contare sulle proprie forze, mettere in pratica quel che si è imparato a scuola su “significante e significato”, ma è necessario anche tener conto di una cosa: è improbabile che il poeta sconosciuto in questione sia il novello Leopardi. Non è da escludere che le sue poesie, in realtà, siano scritte alla “tanto per”, che contengano sì un messaggio, ma che si tratti di un messaggio talmente banale o, al contrario, così complicato e nascosto da suscitare la domanda: “Ma non poteva darsi all’ippica, piuttosto che fare il poeta?”

Credo che questo dubbio sia legittimo, almeno pensando all’enorme differenza di stile tra i classici e i romanzi usciti di recente. Ovviamente non pretendo che lo stile poetico di decenni fa sia identico a quello che usa oggi (e che io non conosco), ma le regole di scrittura poetica, così come quelle di narrativa, sono rimaste più o meno le stesse, perciò il dubbio rimane. E, sfortunatamente, con Sensualità si è rivelato un dubbio fondato. Continua a leggere

Recensione: Sitael – La seconda vita

Come promesso nelle “Letture di luglio”, ecco qui la recensione approfondita di Sitael – La seconda vita, romanzo d’esordio di Alessia Fiorentino.

Titolo: Sitael (1/3)
Sottotitolo: La seconda vita
Autore: Alessia Fiorentino
Genere: fantasy classico, lotta luce/buio
Lingua: italiano
Editore: Dario Flaccovio
Collana:  –
Pagine: 861
Anno di pubblicazione: 2010
ISBN: 9788877588463
Prezzo: € 22,00
Formato: brossura
Valutazione

Qualcosa sull’autrice

Anche per questo libro mi sembra d’obbligo spendere qualche parola sull’autrice, sulla nostra Alessia Fiorentino (classe ’90). Di lei sappiamo che, prima di iniziare a scrivere il suo romanzo, non aveva mai letto niente di fantasy, anzi, non conosceva neanche questo genere. Aveva però il desiderio di leggere una storia fantastica, così invece che continuare invano a cercarla ha deciso di scriverla.
Ora, una delle regole non scritte che ogni autore dovrebbe rispettare è: scrivi solo di ciò che conosci. Vi state già chiedendo, dunque, come abbia fatto una quattordicenne a scrivere un fantasy così corposo senza mai aver letto nulla o quasi di fantasy? Anch’io ero molto curiosa di scoprirlo, perché mi è capitato spesso di leggere libri scritti da autori che affermavano di non essere mai stati dei buoni lettori… e la mancanza di un bagaglio di letture di fondo si faceva sentire. Con Sitael sarà diverso?, mi domandavo prima di leggerlo. Lo scopriremo insieme fra poco, perché la presentazione della nostra giovane scrittrice non è ancora giunta al termine.
Alessia Fiorentino, infatti, non ha scritto un libro soltanto: da quando aveva 14 anni fino ai 20 ne ha scritti ben sei, raggruppati in due trilogie, mentre la sua età anagrafica coincideva con quella del suo protagonista, Etenn. La stesura di ogni romanzo, in pratica, è durata un anno, in modo che Alessia ed Etenn avessero sempre la stessa età.
Di lei sappiamo anche un altro interessante particolare: come Alessia scrive nella sua presentazione, Sitael si è scritto da solo, quasi di getto. Un bene? Un male? Anche questo lo scopriremo presto.

Alcuni assaggini 

Entriamo subito nel vivo della recensione e cominciamo a esaminare il nostro libro: come i più arguti di voi avranno intuito guardando la copertina e come sarà facile intuire fin dall’inizio del libro, il bel ragazzo che vi troviamo, naturalmente, è Etenn, il protagonista della storia… per la gioia dei lettori che preferirebbero immaginarsi da soli i personaggi, piuttosto che trovarseli già belli e pronti.
So che questa può essere un’opinione oggettiva, ma per quanto mi riguarda quella di piazzare in copertina la faccia del protagonista non è proprio una gran trovata: e se a un lettore a caso (tipo me) la suddetta faccia facesse schifo? In questo caso ci sarebbe poco da fare, a parte cercare il più possibile di non guardarla: solo perché l’autrice si immagina il suo personaggio in questo modo, non significa che per me sia lo stesso. Un esempio sono quelle inguardabili righe nere attorno agli occhi che danno al personaggio un’aria decisamente emo: non mi risulta, perlomeno, che nel mondo di Etenn esiste l’eyeliner.
Vi invito a verificare di persona, inoltre, l’originalità della suddetta copertina, copiata pari pari da un’immagine di Frodo Baggins. Stessa identica posizione della mano, stesso sguardo profondo, quasi stesse pieghe del mantello… Semplice ispirazione? A me, sinceramente, sa più di plagio.*

making gifs

Ad ogni modo passiamo oltre. Apriamo il libro e… magia! Niente cartina diciottoperventicinque!

In realtà, andando a curiosare sul blog dell’autrice, ho scoperta che la suddetta cartina esiste:

A parte i nomi random, un numero un po’ ridotto di città per un mondo così grande, la grossa riga nera che ha tutta l’aria di essere un fiume che va da mare a mare, la città del kattivo (Goriahm) piazzata nell’angolo più in alto al di là di una catena di cucuzzoli e le montagne stranamente tutte uguali, devo ammettere che non è malaccio come mappina fèntasi. C’è molto di peggio, perlomeno.
Non avendola sott’occhio mentre leggevo il libro, però, non ho potuto seguire i movimenti dei nostri personaggi, perciò non saprei dire se è stata disegnata tenendo conto della storia o se è stata realizzata alla “tanto per”. Inoltre, non è stata inserita all’interno del libro, e visto che questa è una recensione sul libro e non sull’intero background ideato dall’autrice per la sua storia, non ne ho tenuto conto nella valutazione del libro. Anche perché non avrebbe fatto una gran differenza, è chiaro.

Diamo un’occhiata alla fenomenale lista della spesa introduzione che si trova a inizio libro:

Benvenuti in un mondo
in cui avvengono cose straordinarie.
Alcune magiche e meravigliose.
Altre… terribili.
Ma alla fine voi,
e solo voi,
riuscirete a vincere.
Coraggio.
Lealtà.
E Luce.
Vi accompagneranno in questo lungo viaggio.
Pensate quello che volete,
ma questa storia… Già.
Questa storia è vera.

Solo a me viene spontaneo domandarmi come sia possibile che alla fine “noi” riusciremo a vincere, considerato che la storia è ambientata in un altro mondo? Mah, non chiedetemelo: siamo in un libro fèntasi, e tanto basta. Posso pensare quello che voglio? Molto bene: penso che chi ha scritto questa introduzione avrebbe potuto sforzarsi un po’ di più, perché così sembra provenire direttamente da un videogame. Solo che ci troviamo in un libro, e questo non è propriamente un bene.

Prima di proseguire, vi consiglio di dare una spizzicata al capitolo che la Dario Flaccovio mette a disposizione sul sito.

Dopo questa breve introduzione, ci troviamo con una delle cose che proprio non può mancare in un fèntasi, ovvero il prologo. Leggasi: la soluzione più sfruttata dagli scrittori pigri, che naturalmente preferiscono di gran lunga raccontare il tutto invece che mostrarlo nel corso del romanzo, per introdurre la loro storia. E Sitael, naturalmente, non fa eccezione.
In questo prologo scopriamo che la storia è ambientata a Lycenell, la “terra antica e lontana circondata dal mare”; conosciamo il mega-superkattivo di turno, ovvero Qurasch,  che è nientemeno che il figlio del Demonio in persona!

Ecco a voi il terribile Qurasch!!! Paura, eh?

Poi veniamo a sapere che il nostro amico Qurasch ha inventato un esercito di mostri brutti&kattivi di nome Varles, e un bel giorno decide di attaccare Varvaria, una delle città di Lycenell. Ma una donna di nome Regina riesce a fuggire e raggiunge Oreah, dove fa un patto con il Sole: fonderà in suo onore un ordine di cavalieri, i cui componenti sarebbero stati scelti per via del fykissimo potere di possedere la Luce. Il cambio il Sole donò il Sitael, che è un’altra fykissima arma in grado di distruggere Qurasch il Superkattivo, il quale a sua volta è l’unico che può distruggere il Sitael. Che botta di originalità, non trovate? Non c’è niente di più innovativo dell’epica ed eterna lotta tra la luce e il buio! E soprattutto, il kattivo veramente kattivissimo è un’idea che non si era mai sentita prima, nevvero?
Ecco, cara Alessia, cosa succede a voler scrivere fantasy senza aver mai letto nulla di fantasy.
Oddio, se è per questo non è vero neanche il contrario: esistono scrittori di vasta cultura del genere, i cui libri non sono proprio il massimo dell’originalità. Ma almeno dopo aver letto un discreto numero di libri fantasy, un lettore dovrebbe avere già un’idea di quali sono i cliché più tipici del genere, e di conseguenza dovrebbe almeno tentare di evitarli. Ma se non si conosce minimamente un genere, non solo si scadrà negli stereotipi più ovvi, ma lo si farà ignorando che ciò che si sta scrivendo non è esattamente l’idea più innovativa del mondo. L’unico punto a favore che mi sento di dare a questo prologo è il seguente: è conciso, non si perde in riflessioni e descrizioni inutili, e soprattutto è breve; i frequenti spazi, inoltre, lo fanno scorrere velocemente. Sempre meglio di un prologo stile Gli eroi del crepuscolo, in ogni caso.

Fine del prologo. Salto di ben 300 anni.
Ora ci troviamo a Varvaria, dove, ancora prima che sorga il sole, una donna esce di casa da sola, si allontana dal villaggio e attraversa prati e boschi prima di arrivare a una sorgente, dove si ferma e fa il bagno.
Notate niente di strano? Be’, spiegatemi se una cosa del genere è plausibile, visto che, come si capisce dopo poco, i Varles, i kattivi al servizio di Qurasch, sono ancora in circolazione! Da quando le ragazze in un epoca pseudo-medievale se ne vanno in giro sole solette in piena notte, si spogliano per farsi il bagno e rimangono lì tranquille senza che un qualche malintenzionato le noti?
Lo so, avete ragione: è fèntasi, non bisogna farsi problemi su queste cose!
Nella scena, però, compare anche un altro individuo: una figura nera dall’ombra nera, incappucciata di nero e che è seguito da una nebbiolina nera (chi sarà mai?), sale sul pendio roccioso che lo porta al di sopra della cascata, portando con sé un fagotto nero. Una volta arrivato in cima, getta il fagotto nella cascata, senza accorgersi della bella donna che sta facendo tranquillamente il bagno… Casualmente, però, il fagotto ritorna a galla e la donna lo solleva dall’acqua, lo apre e… sorpresa! C’è un neonato! *Stupore generale* Ma non è un neonato qualsiasi: è il più bel neonato che la donna abbia mai visto! Biondo, con gli occhi color oro… che chiedere di più? E indovinate un po’ il nome che viene affidato al piccolo: si chiamerà Etenn, che significa nientemeno che portatore di luce… e già a questo punto anche il lettore più ingenuo avrà capito tutto della storia.
Serviva tirarla per le lunghe per più di 800 pagine, anzi, addirittura per sei libri? Naturalmente sì, e scopriremo subito il perché.

Un minestrone di stereotipi

È questa la prima definizione che mi è venuta in mente non appena ho concluso questo romanzo. Anzi, no, molto prima di averlo concluso: in realtà, la puzza di cliché si percepisce fin dal capitoletto introduttivo. In Sitael troviamo, infatti:

• un protagonista Gary Stue (ho calcolato personalmente il grado di Marysuaggine grazie all’apposito test: non è di quelli irrecuperabili, ma è comunque un malato grave) – rigorosamente orfano, adottato e tenuto all’oscuro delle sue origini – che all’inizio del libro non riesce a tenere in mano una spada, ma che diventa bravissimo nel giro di pochi capitoli, per l’esattezza a partire dall’amnesia che subisce;

• il suddetto protagonista, ovviamente, si rivelerà essere il predestinato, l’oggetto della misteriosa profezia, “colui che è nato per essere Luce”;

• come se non bastasse, finisce per ingoiare accidentalmente una pietra magica che gli fornisce altri magic powers specialissimi e unici;

• il solito superkattivo che terrorizza tutti per ben tre ere, ma che un quattordicenne riesce a sconfiggere in un capitolo;

•  degli elfi – che sono uno stereotipo già per conto loro – non si sa molto; qui, infatti, si parla per lo più degli Sharephi,  che in pratica erano elfi ma si sono slegati da loro, trovandosi naturalmente un nuovo nome. Anche parlando degli Sharephi, però, le cose non migliorano, perché dei tre individui che compaiono nella storia, la ragazza è anch’essa una Mary Sue, il primo ragazzo è decisamente lunatico (all’inizio è un presuntuoso come pochi, poi finisce col diventare super simpatico con Etenn, e i suoi atteggiamenti si alternano di continuo) e il secondo è fondamentalmente inutile, tanto che viene tolto di mezzo non appena si presenta l’occasione giusta;

•  il solito viaggio periglioso attraverso mezza Lycenell per raggiungere Oreah, la città dove si trova il sole; per 700 delle 861 pagine non succede altro;

• ah, e non scordiamoci del fatto che il protagonista – perfetto sotto ogni punto di vista – possiede un fratello anch’esso molto kattivo, creato da Qurasch per distruggerlo in caso lui fallisse: Etenn è biondo con gli occhi color oro, mentre Stacra è moro con gli occhi rossi; Etenn è luce così come Stacra (questo è il nome del fratello kattivo) è buio; Etenn rappresenta il bene come Stacra rappresenta il male. Altra botta di originalità, non trovate? Non farò spoiler, però, casomai dopo questa recensione ci sia ancora qualcuno disposto a leggere questo mattone, perché in fondo in fondo un che di interessante in questa lotta tra fratelli rimane… Niente di sconvolgente, però;

Stacra, il gemello kattivo di Etenn.

•  infine, abbiamo come idea di base un concetto vecchio come il mondo: il Sitael, infatti, è un’arma di luce, è in pratica luce allo stato puro. È una luce che non viene mai e poi mai intaccata dalla tenebra, e di conseguenza il suo portatore non può che essere perfettamente buono. E permettetemi di obbiettare che un personaggio completamente buono è piuttosto irreale: possibile che non abbia mai un momento di debolezza, una crisi di panico, una fase di sconforto, un attimo di follia e desiderare di mandare a monte tutto, una notte di problemi di stomaco… No, niente di tutto questo. Una qualche sconfitta ogni tanto, per fortuna, ce l’ha (come a seguito della lotta contro le Ninfe: una scena che avrebbe potuto risultare interessante, se solo l’autrice non l’avesse liquidata in poche righe, ma è comunque uno dei punti meglio riusciti, secondo me), ma poi riprende a essere perfetto e infallibile come se niente fosse accaduto. Un protagonista troppo perfetto, ahimè, non è mai un buon protagonista: vi dirò che all’inizio mi ci ero affezionata, perché nonostante tutto qualche problemuccio per esempio di autostima non gli mancava, ma poi… lasciamo perdere.

Un appunto sui nomi

Come sempre, la nostra Alessia presenta diversi sintomi della temuta Sindrome di Sonohra. Non si tratta, fortunatamente, di una forma grave, ma ho riscontrato sufficienti prove di questa letale malattia. Le più palesi sono le seguenti:
• Sharashidahllen (non sarà per caso parente della  Sylvianarlamistrydian de Gli eroi del Crepuscolo?);
• Cheyun;
• Hayel (l’altro nome molto fygo di Etenn);
• Goriahm (da qui in avanti vengono dalla cartina);
• Ashleyrey;
• Valle Soahsghen;
• Lyangalonh;
• Thilye;
• Lahngral;
• Nith-Hayah;
• Yath Vanlassaii;
• Fharòden;
• Lago di Rionh;
… ovvero, degli ottimi esempi di quanto sia bello e divertente pigiare a caso le lettere sulla tastiera, magari infilando qualche H o qualche Y dove capita per dare un effetto davvero mystycoh, senza però rendersi conto che con una trovata del genere si ottengono soltanto nomi ridicoli e impronunciabili.

700 pagine di nulla 

A proposito del cliché del viaggio periglioso, c’è un’altra cosa interessante da dire riguardo a Sitael e anche a proposito, come ho scritto nella presentazione dell’autrice, dello scrivere di getto: per tutta la parte centrale (diciamo da pagina 100 fin circa a 750-800), la nostra storia è caratterizzata da una quasi totale assenza dello sviluppo della trama. Ok, la nostra compagnia di personaggi (Etenn, i tre Sharephi, un elfa e il capitano – mi pare di non aver scordato nessuno, quindi se l’ho fatto scusatemi: purtroppo Sitael non è propriamente uno di quei libri che ti stimolano l’attenzione dall’inizio alla fine…) attraversa tutta Lycenell, da Nord a Sud, e mentre viaggiano passano in rassegna tutte le creature fantastiche che abitano la terra. In pratica, si scontrano con:
• elfi;
• draghi;
• ninfe;
• sirene;
• centauri;
• giganti;
• Varles, ovvero i mostriciattoli creati dal cattivo;
• simpatiche donzelle che trasformano la gente in pietra;
… e grazie ai suoi magic powers – dei deus ex machina niente male – spuntati dal nulla, Etenn riesce sempre a farla franca, spesso in extremis.

A questo punto credo sia palese che Alessia Fiorentino non sapeva più come fare per non ridurre il suo fantasy a un libretto di 200 pagine scarse, perciò ha preferito allungare il brodo a dismisura, riempiendo la sua storia di parti fondamentalmente inutili (perché una buona parte di questi scontri con le varie creature si sarebbe potuta tagliare senza rimpianti, o comunque accorciare di un bel po’) e soprattutto noiose. Ecco cosa succede a scrivere di getto, senza “sprecare” tempo prezioso prima di cominciare a scrivere stabilendo tutte le pieghe che dovrà prendere la trama. Se avesse fatto così, scommetto che le pagine risultanti sarebbero la metà di quelle attuali. Ma si sa: un fèntasi non è bello se non è lunghissimo e pieno di parti inutili! Se lo dice anche Nonciclopedia c’è da crederci!

Lo Stile

Parliamo un po’ dello stile di Alessia Fiorentino, cominciando subito da quella che dovrebbe essere la regola principale di ogni scrittore: lo Show, don’t tell. Ci sono punti in cui il libro è scritto benino: mostra le scene  in modo efficace, per lo più è scritto in modo diretto, senza perdersi in parti contorte. Ce ne sono altri – e sono la maggior parte – in cui il mostrato fa proprio acqua, in cui gli avverbi e gli aggettivi inutili non si contano e che la narrazione diventa ultra-noiosa. Le ingenuità, naturalmente, non mancano (come i nostri amici che si cibano con una quaglia, o le scale nel palazzo delle sirene…). Il colore dei capelli e degli occhi di Etenn, inoltre, viene ripetuto ogni volta che si presenta l’occasione, e sempre in questi termini:

Etenn era, appunto, molto biondo, e i suoi occhi erano grandi, particolarissimi: color dell’oro. [pag. 19]

No, Alessia Fiorentino non si accontenta di piazzare l’immagine del suo beniamino in copertina: ci delizia continuamente con obbrobri del genere, come se i lettori fossero così scemi da non ricordare da una volta all’altra l’aspetto fisico del protagonista. È naturale, no? Etenn rappresenta la luce, la bontà assoluta: la perfezione incarnata, in poche parole. Quindi è praticamente obbligatorio ricordare tutti i momenti a lettore che il personaggio di cui sta leggendo le avventure è bellissimo, biondissimo, con degli occhi particolarissimi e soprattutto dall’animo coraggiosissimo. Cos’è che dicevo riguardo ai personaggi troppo perfetti? Ah, sì, che non sono proprio un granché…

‘Mazza quanto sei biondo, Etenn!

A parte queste descrizioni veramente puerili, però, si arriva addirittura a errori veri e propri, come quello che troviamo a pagina 23:

[…] per questa ragione [Caliel, il fratello maggiore di Etenn] aveva dovuto nominarlo scudiero sebbene Etenn non sapeva fare niente e non fosse adatto a quel ruolo.

Capisco che ormai il congiuntivo sia diventato una cosa out, ma non è una novità che mettere l’imperfetto dopo “sebbene” sia sbagliato… E questa non è l’unica schifezza che ho trovato, purtroppo. La domanda, alla fine, è sempre la stessa: editor, dove seeeei?

Conclusioni

A questo punto credo sia inutile dire che non vale assolutamente la pena di spendere ben 22 euri per acquistare un fèntasi come Sitael. Già il prezzo è da infarto per conto suo (e ringrazio di essere riuscita a trovarlo scontato del 50%), ma per un libro venuto male come questo, non ho nessun rimpianto nel dire che quelli della Dario Flaccovio sono degli autentici ladruncoli. Capisco la mole non da poco, i costi di stampa e tutto il resto, ma esistono un sacco di libri stampati in brossura come Sitael, addirittura con diverse pagine in più, a un prezzo molto più onesto. Proprio non capisco come si possano pubblicare libri del genere, oltretutto senza uno straccio di editing. E poi mi vengono a dire che gli editori tirano fuori la scusa che un libro è troppo lungo, pur di non pubblicarlo…

* Ringrazio Gianlu830 per avermela segnalata.

Recensione: Il sigillo del vento

Oggi ho deciso di postare una recensione un pelo più rilassata della precedente, a proposito di un libro che ho letto durante le vacanze. L’ho elaborata già da qualche giorno, ma avendola dovuta scrivere con l’antipaticissima tastiera touch dell’iPad ho preferito postarla solo oggi, appena tornata dal mare, in modo da poterla sistemare senza rischiare di combinare un macello, perché modificare o addirittura creare un articolo con immagini, collegamenti e tutto tramite l’applicazione di WordPress per iPad non è esattamente la cosa più facile del mondo.

Ecco a voi, dunque, il mio parere riguardo al libro Il sigillo del vento di Uberto Ceretoli.

Cominciamo come al solito con un po’ di dati tecnici:

Titolo: Il Sigillo del vento
Fa parte di: I quattro sigilli (libro I)
Autore: Uberto Ceretoli
Genere: fantasy classico, elfi
Lingua: italiano
Traduttore: –
Editore: Asengard
Collana: Elfheim
Pagine: 608
Anno di pubblicazione: 2007
ISBN: 9788895313016
Prezzo: € 19,00
Formato: brossura
Valutazione:

 

Era tanto, ma veramente tanto tempo che non leggevo un romanzo fantasy sulla scia del Signore degli Anelli che mi piacesse così tanto. E pensare che all’inizio ho fatto così fatica a entrare nella storia che pensavo di abbandonarlo dopo pochi capitoli… Meno male che non l’ho fatto!
Credo che questo scarso entusiasmo iniziare sia stato dovuto a quelli che ho definito “infodump controllati”: prima di ogni capitolo c’è un breve testo che spiega varie cose riguardo allo stesso… e trovarsi un bel “trattato sulla diversità delle culture del continente di Arhanien” quasi all’inizio di un romanzo corposo come questo, a mio parere, non è stata una scelta molto azzeccata. Questi particolari “infodump”, però, sono senz’altro una scelta che ho avuto modo di apprezzare: per non scadere in un Infodump vero e proprio ma volendo ugualmente raccontare qualcosa in più su personaggi e ambientazione, l’autore intervalla la narrazione e brevi pezzi scritti in corsivo, che perlopiù raccontano momenti di flashback. Mi è piaciuta questa scelta, insomma: è giusto che uno scrittore di fantasy voglia dirci qualcosa in più riguardo al mondo e alle creature che ha inventato. Sarebbe stato meglio mostrarlo, certo, ma questa mi è parsa una buona soluzione alternativa.

In ogni caso, la crisi momentanea è passata, per fortuna, e la storia, dopo i primi capitoli un poco pesanti si è rivelata davvero notevole.
Abbiamo un fantasy con le creature classiche – elfi, nani, umani, draghi, demoni… -, con una serie di nomi che fanno pensare a una brutta Sindrome di Sonohra (Gwyllywm, Erwmysh, Glewmwn, Gwylw’ynyen…). Per fortuna questi nomi si limitano ai personaggi elfi e comunque c’è una giustificazione che mi è parsa sufficiente e non creata alla “tanto per”: in elfico la W si legge U e la Y si legge I, quindi dopo il primo shock i nomi non diventano più così impronunciabili. Poi troviamo un sigillo che permette di dominare il vento e l’eroe che è alla ricerca del passato perduto; ma nonostante questi apparenti cliché non si tratta del solito fantasy scadente.
Prima di tutto, il protagonista è un elfo, ma non è uno dei soliti elfi alti, biondi, belli e un po’ effeminati come vengono dipinti di solito: Guillium (permettetemi di chiamarlo all'”italiana”… Tutte quelle W e Y mi danno non poco sui nervi!), erede del Sigillo del Vento, viene cresciuto tra i Revisionisti – elfi della luce -, ma un giorno conosce il suo vero padre e entra a far parte degli Ortodossi – elfi delle tenebre -, di cui sua sorella Raylyn è sacerdotessa. Ma una serie di circostanze lo spingono ad abbracciare di nuovo la fede Revisionista, sebbene nessun elfo prima di lui sia mai passato dalle tenebre alla luce, e suo padre e sua sorella lo privano dei ricordi e lo imprigionano nella sua stessa spada. Una volta liberato, il suo obbiettivo sarà sconfiggere Raylyn per potersi riappropriare del Sigillo, ma la strada non è facile, perché sia la Luce che la Tenebra cercano continuamente di prendere il controllo su di lui. Ed è proprio questo che mi è piaciuto maggiormente di Guillium: non è perfetto o infallibile come solitamente vengono dipinti gli elfi. È una creatura potente, con grandi abilità nella magia – magia che a volte ha un po’ l’aria del Deus ex machina -, ma a volte nemmeno queste bastano a non fargli prendere delle batoste. Mi è piaciuto perché è un personaggio forte, ma non di quelli talmente forti da non cadere mai, da non avere neanche un punto debole (sempre che chi non ne ha sia davvero forte): lui cade, e anche spesso, vuoi per una ferita da freccia o per la troppa fatica derivata dall’uso di un incantesimo, ma si rialza sempre, stringe i denti e continua per la sua strada. È un elfo con i suoi problemi, alla ricerca del suo passato dimenticato e conteso tra gli ideali della luce e delle tenebre, ma che sa essere anche divertente (memorabili gli scontri verbali tra lui e il nano Meldor), docile e protettivo nei confronti dei suoi amici.
Un paio di parole vanno spese anche per sua sorella Raylyn, la “cattiva” del romanzo: non è la solita antagonista superkattiva (anche se il fatto che ci sia una donna antagonista è un merito, in un mondo di cattivi maschi) che è kattiva perché sí. Lei ha dei motivi ben precisi, anche se non condivisibili, per riportare suo fratello sulla “retta via” o per eliminarlo in caso di fallimento, non agisce perché sì come la maggior parte dei kattivi fantasy. Ne Il Sigillo del Vento, infatti, viene introdotta un’idea che ho apprezzato molto: non può esistere la luce senza la tenebra e non può esistere la tenebra senza la luce. Le due parti si completano a vicenda, perciò non può essercene una che vince sull’altra una volta per tutte, e se Guillium, alla fine, esce vittorioso, la sua non è certo una vittoria completamente “luminosa”. Insomma, mi è piaciuto che, per una volta, non ci sia un netto distacco tra buio e luce, come invece accade nel 99% dei fantasy. Quest’ultimo non è necessariamente uno svantaggio, visto che esistono fantasy bellissimi nonostante il cliché dell'”eterna lotta tra luce e tenebre”, ma trovo che questa idea un po’ innovativa non sia niente male.
È un libro scritto in modo articolato, con uno stile che ha un giusto equilibrio tra ricercato e semplice, ottimo se non per alcuni piccoli difetti, come le frequenti “d” eufoniche, a volte i cambi di PoV o l’uso di nomi inglesi per le armi dei personaggi (Soulslayer, Hawkeye…) in un mondo fantasy dove non mi risulta che si parli questa lingua, ma per il resto è davvero un gran bel libro.

Anche l’occhio, naturalmente, vuole la sua parte, perciò concluderò questa recensione parlando dell’aspetto “estetico” del libro: eccetto la copertina un po’ troppo stile “Cronache del mondo emerso”, ben realizzata ma, a mio parere, un po’ troppo fumettosa, è un romanzo che si presenta ottimamente, come del resto tutti quelli dell’Asengard. L’impaginazione è  un po’ fitta, ma almeno le 600 pagine sono davvero 600 pagine, e non 200 scarse spalmate fino a occuparne il triplo come succede di solito; quindi sì, secondo me è un buon modo per spendere 19€.

Gli italiani non sanno scrivere fantasy? Naaa… anche noi possiamo riuscire a creare qualcosa di buono, e il romanzo di Ceretoli ne è la prova. Non una cosa eccezionale, intendiamoci, ma sempre meglio dei romanzi scritti da una certa autrice che viene considerata la migliore scrittrice italiana di fantasy…
Leggerò sicuramente anche il seguito, Il sigillo della Terra, sperando che escano presto anche il Fuoco e l’Acqua!